venerdì 6 giugno 2014

Aloe: la riscoperta moderna


A metà ottocento l’aloe viene riscoperta grazie a una serie di studi innovativi, fra i quali spicca l’esperienza di un medico russo capace di unire sapere scientifico e medicina popolare.
La storia moderna dell’aloe comincia con la scoperta del principio attivo caratteristico di questa pianta, ribattezzato aloina dalgi insglesi Smith e Stenhouse nel 1851, anno in cui per la prima volta il composto viene titolato e identificato. Per tutto l’ottocento comunque sono soprattutto le proprietà lassative dell’aloe ad attirare l’attenzione e nel British Pharmaceutical Codex del 1907 l’aloina e aloemodina sono citate per le proprietà purganti e purificanti. Il primo a commercializzare l’aloe fu invece un piantatore del Kentucky, H.W. Johnstone, che accortosi quasi per caso del forte potere cicatrizzante della pianta – usata dai lavoratori di colore della sua piantagione – iniziò a coltivarla su larga scala, mettendo in commercio nel 1912 un unguento. Negli anni trenta due ricercatori americani, i Collins (padre e figlio) studiarono a fondo la capacità rigeneratrice dell’aloe, pubblicando un rapporto sull’effetto dell’aloe vera nel lenire gli effetti della radioterapia, in particolare nelle dermatiti. La loro ricerca segnò in America il lancio di una serie di campagne scientifiche di approfondimento della composizione della pianta culminata con i lavori di Chopia e Gosh, che nel 1938 riuscirono nelle loro analisi a fornire una prima descrizione della composizione chimica della pianta. Fra il 1942 e il 1947, un ingegnere chimico, Rodney M. Stockton, imbattutosi per caso nella pianta, dopo decine di esperimenti ne provò l’efficacia e mise in commercio con un certo successo un balsamo per le ustioni. Contemporaneamente proseguiva l’analisi chimica della pianta. Tom Rowe, dell’università della Virginia, stabiliva per esempio che il principale agente curativo delle lesioni cutanee da radiazioni doveva trovarsi concentrato nella parte dura delle foglie. Solo verso la fine degli anni cinquanta il farmacista texano Bill C. Coats, dopo aver interamente dedicato la sua vita agli studi, riuscì a stabilizzare la polpa di aloe fresca, evitando i problemi di fermentazione e ossidazione del prodotto che avevano fino ad allora afflitto sia la preparazione del succo che delle creme. Coats risolse il problema con aggiunta di vitamina C, vitamina E e di sorbitolo, tutti antiossidanti naturali. Questo portò alla vendita dell’aloe su larga scala. Quasi negli stessi anni i russi, lavorando su varietà diverse dell’aloe vera al centro delle ricerche americane (aloe arborescens e striatula) e tipiche delle loro latitudini, giungevano alla conclusione che una medicazione a base di aloe dimezzava i tempi di guarigione in caso di traumi ginecologici e oftalmici, collegando l’acido cinnamico alle capacità dell’aloe di uccidere i parassiti intestinali. Proprio i russi del resto potevano vantare uno dei maggiori pionieri nello studio dell’aloe.
La medicina dialettica di Filatov
L’oftalmologo russo Vladimir Petrovic Filatov, nato a Odessa nel 1875, può essere considerato a ragione uno dei precursori dell’impiego dell’aloe. Ecco perché ci sembra giusto dedicargli un breve paragrafo. Lo zar Nicola II volle insignire personalmente con la cattedra d’oftalmologia a Mosca questo promettente medico, ricercatore dinamico e ricco di interessi. Secondo Filatov si doveva passare con naturalezza dalla omeopatia alla naturopatia, dalla medicina energetica a quella tradizionale, tenendo a mente una medicina unitaria, capace di mantenere per così dire una visione d’insieme (quella che oggi chiamiamo olistica) della malattia e dell’essere umano. Proprio negli anni tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento, il medico tedesco Paul Ehrlich si fece promotore della prima chemioterapia: una terapia a base di sostanze chimiche in grado di aggredire l’agente patogeno colpendolo con precisione come fosse un bersaglio, allo stesso modo in cui i sieri andavano a colpire le tossine. Filatov sosteneva che le cure chemioterapiche e la fitoterapia possedessero altrettatnte qualità che, anziché esser poste su piani diversi, dovevano lavorare in sinergia con l’unico scopo della guarigione del paziente. Dopo la rivoluzione d’ottobre, per poter continuare i suoi studi, Filatov ribattezzò il suo metodo di studio “Medicina Dialettica” affinché il regime bolscevico lo lasciasse continuare a lavorare senza drastiche imposizioni. Grande viaggiatore, avvezzo alla vastità dell’impero russo, era solito studiare le piante medicinali e i segreti dei guaritori locali che incontrava sulla strada. Durante questi intensi scambi, cercava di istruire i guaritori, trasmettendo loro i rudimenti della scienza medica moderna, cercando al tempo stesso – come cattedratico – di dare ai medici universitari una formazione più aperta alla medicina popolare tradizionale. La grande scoperta di Filatov fu la messa a punto di un trapianto di conrea. Filatov comprese infatti che innestando un frammento di cornea sana prelevato da un cadavere su quella malata e opaca affetta da cataratta, il piccolo frammento era in grado di restituire alla cornea malata la trasparenza di origine. Il processo era d’altronde velocizzato se il prelievo della cornea veniva eseguito con il corpo del morto mantenuto al freddo, a una temperatura di 2-3°. Praticò con successo più di tremila innesti di cornee, guarendo un gran numero di cateratte e di cheratoscleriti.
Stimolatori biogeni e piante medicinali

Gli studi sulla conservazione dei tessuti alle basse temperature e sulle proprietà rigeneranti di alcune sostanze in particolari condizioni proseguirono: Filatov chiamò queste sostanze “stimolatori biogni” e applicò la sua teoria a piante medicinali come il ginseng e l’aloe arborescens. L’aloe arborescens, in particolare, era abbondante in tutta la Russia meridionale e nell’Asia centrale, e Filatov la scelse dopo averne osservato i sorprendenti effetti cicatrizzanti: tagliò delle foglie di aloe, le conservò per dieci giorni al riparo dalla luce e al freddo, successivamente ne estrasse la polpa e la iniettò sotto la cute dei pazienti: si accorse che ottneva risultati simili a quelli raggiunti con il trapianto di tessuti. Filatov notò con sorpresa un altro elemento: le stesse foglie di aloe passate nell’autoclave a 120°C conservavano le loro proprietà anche si i loro enzimi non erano presenti. Anche in questo caso arrivò alla conclusione che i responsabili del processo di guarigione dovevano essere gli stimolatori biogeni. Filatov non riuscì mai a provare l’esistenza degli stimolatori biogeni e a spiegare il loro funzionamento, anche se continuò a ottenere eccellenti risultati con la sua preparazione di aloe arborescens (chiamata “aloe biostimolata”). Dopo la morte di Filatov la scuola russa ha continuato a impiegare l’aloe (sia arborescens che vera) con successo fra l’altro nei casi di sciatica, malattie infiammatorie della spina dorsale, astenia. Solo in seguito il dottor Brandt avrebbe tentato di dare una spiegazione scientifica al meccanismo del funzionamento degli stimolatori bigeni a base di aloe vera, collegandolo al sistema nervoso centrale: l’aloe provocherebbe un allungamento della durata dei riflessi condizionati, attivando così un processo di inibizione del sistema nervoso centrale.

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